A proposito...
"UN GIORNO DELL'ESTATE DEL 1943
Ultimata la scuola di secondo periodo di pilotaggio, venni trasferito all'aeroporto di Lonate Pozzolo, agli Stuka. Vi giunsi il 16 giugno 1943 e il giorno successivo, dopo due voli dimostrativi con il «Cr.42», decollai con lo Stuka, il tuffatore tedesco,venendo conquistato a poco a poco da questo aeroplano. Feci un addestramento intensissimo, con lancio di bombe da esercitazione sul poligono e, dopo venti giorni, venni assegnato alla 237a squadriglia tuffatori distanza all'aeroporto di Ampugnano (Siena). Cominciavo ad avvicinarmi alla zona di combattimento e ne ero felice. Vi giunsi il 7 luglio, e il 10 mattina feci il passaggio sullo Junker 87 D3, detto "Dora" . Ero sceso da poco dal nuovo aereo quando giunse l'ordine in linea di volo di trasferimento della squadriglia a Gioia del Colle (Bari). Gli anglo-americani avevano iniziato, infatti, l'attacco alla Sicilia. La mia squadriglia faceva ora parte del 121° Gruppo tuffatori, al comando del Maggiore Orlandini.
Giorno 12 luglio 1943.
Il Maggiore Orlandini scelse cinque piloti oltre a se stesso; ricordo il Tenente Marcoccia, il Sottotenente Poggioli, il Maresciallo Galletti. Essendo disponibile un settimo apparecchio, mi offrii di partecipare all'azione di attacco al naviglio nemico che si trovava nella rada di Augusta. Venni accettato. Il comandante ci indicò la rotta, il metodo di attacco alle navi e alle ore 11.55 partimmo, diretti verso l'Etna per l'appuntamento con la caccia di scorta, che però non si vide. Lo spettacolo dell'isola siciliana, immersa in un mare verdastro, era meraviglioso e dalla quota di oltre quattromila metri si ammirava la costa verso Palermo e Catania e lo stretto di Messina, che si incuneava come un grande fiume fra le estreme propaggini della costa calabra e la zona di Capo Faro.Benché senza scorta, ci metteremmo in rotta verso Augusta. Pilotavo l'ultimo aereo della formazione, e mi beccai subito e in pieno l'attacco della caccia avversaria che proteggeva la flotta d'invasione, la quale stava mettendo in mare centinaia di zatteroni da sbarco. Virammo verso il centro della rada, e, seguendo la squadriglia, mi gettai in tuffo su una grossa nave mercantile, senza azionare i freni aerodinamici per rimanere il minor tempo possibile sul bersaglio. Tolsi la sicura alla bomba e alle mitragliatrici in caccia e mi misi a sparare sul ponte della nave, alla quale mi avvicinavo e che ingrandiva a vista d'occhio. Quelli di sotto sparavano come indiavolati con un tiro molto preciso, perché vedevo che i proiettili mi esplodevano intorno, e sempre alla mia quota. Traguardavo la nave al centro del collimatore e sparavo durante il tuffo a novanta gradi. Pensavo: questa non mi può sfuggire. Le vampe prodotto dalle mie mitragliere alari mi rincuoravano, dandomi un senso di protezione. A un certo momento sentii suonare la sirena; l'altimetro segnava duemila metri di quota, al di sotto dei quali si innalzavano i palloni frenati. Sganciai la bomba e iniziai la richiamata; avevo raggiunto nel tuffo una velocità di oltre cinquecento chilometri e mi parve di essere addirittura schiacciato dalla accelerazione di gravità. Sei «Spitfire» mi si misero alle costole, decisi a farmi fuori. Venni preso da una rabbia cieca, sentendomi tallonato come un ladro dai cani poliziotti. Un caccia mi attaccava dalla destra a non più di cento o duecento metri di distanza; scorsi il pilota quasi in viso; gli virai addosso e sparai. Non posso dire se lo colpii o no; l'inglese mi si gettò sotto e sparì nel gran vuoto che avevo sotto di me. Intanto, da dietro, mi sparavano e, oltre che sentirle, vedevo le raffiche avversarie colpire le ali; la carlinga dietro all'armiere, il timone, i piani di coda erano già ridotti peggio di un colabrodo. Ma lo «Stuka», apparecchio particolarmente robusto, volava ancora. Per cercar di evitare questo tiro al bersaglio, mi tuffai nuovamente, sino a una quota bassissima, sull'acqua, mentre il mio armiere, il bravo Rimoldi, rispondeva al fuoco nemico con le armi in torretta. Vedevo lontano il massiccio grigio-scuro dell'Etna, e puntavo verso nord, con l'intenzione di atterrare a Reggio Calabria. A un tratto sentii una raffica sulla testa; mi entrò in fusoliera attraverso la capottina e mi ruppe vari strumenti, ma il motore funzionava ancora, e io continuavo la corsa quasi disperata con gli occhi fissi al mare. Sentii la voce dell'armiere che, per mezzo dell'interfonico, mi avvertiva che le sue mitragliatrici si erano inceppate. Gli risposi di cercare di disincepparle al più presto, altrimenti ci avrebbero certamente fatto fuori. Vi riuscì, sentii sparare una raffica contro uno Spitfire che si era messo in coda troppo vicino. Si incendiò e con la maggiore velocità ci oltrepassò sulla destra, infilandosi in mare d'ala. Il nostro grido di gioia venne, però, subito stroncato da un colpo di cannoncino che, attraversando letteralmente il motore, colpì il circuito dell'olio e dell'acqua.Lasciavamo un fumo nerastro in coda; la pedaliera si mise a vibrare pazzamente, il motore a scoppiettare, i giri a diminuire. Era la fine del nostro magnifico apparecchio!
Vidi una fiammata sotto la manetta del gas, e un principio d'incendio sulle ali pericolosamente vicino ai serbatoi della benzina. Il mare, intanto, si avvicinava, e forse era la nostra sola salvezza, non essendovi più la quota disponibile per il lancio con il paracadute. Ordinai all'armiere di sganciare la capottina e di slacciarsi le bretelle. lo pure con la sola mano disponibile, cercai di fare altrettanto. La quota era di circa cento metri e planavo irrirnediabilmente sul mare. Impugnai la cloche con la mano sinistra, mi puntellai con la destra sul bordo anteriore della carlinga; l'acqua era lì, sganciai tirando la leva di comando alla pancia; sentii un violentissimo colpo all'occhio sinistro e mi trovai capottato sott'acqua dentro la carlinga.Il mare si tingeva di rosso per il sangue che mi sgorgava copioso dalle ferite all'occhio. Lottai disperatamente contro il salvagente che mi teneva a galla a testa in giù nell'interno della fusoliera e contemporaneamente avevo la pretesa di prestare soccorso al mio armiere, credendo che fosse rimasto intrappolato nella carlinga. Quando già stavo per rimanere senza aria, riuscii a liberarmi e con violenti colpi di tallone venni alla superficie. Il cielo era stupendamente azzurro, e il mare leggermente mosso. Feci appena in tempo a respirare profondamente e l'aeroplano, riempitosi di acqua, si inabissò producendo un gorgo di spuma con infinite bolle d'aria che continuarono a venire alla superficie. Mi sentii tirare per i piedi ma rimasi a galla; ora il salvagente era provvidenziale. A dieci metri circa di distanza da me, il mio armiere, con un solo graffio insignificante in fronte, stava armeggiando intorno al battellino pneumatico per aprirlo, battellino che era volato in mare insieme con lui nel momento della cappottata dell'aereo. Raggiunsi con alcune bracciate il battellino aperto e vi salimmo entrambi. Erano esattamente le ore 13.26, segnate dal mio cronometro, che si era fermato al contatto dell'acqua salata. Distanza dalla costa circa trenta chilometri ed eravamo vivi. Ci medicammo, fumammo, mangiammo qualche biscotto col cioccolato e a turno remammo per ore e ore. La costa si ingrandiva, ma rimanendo sempre lontana. Vedemmo delfini a branchi, navi e combattimenti aerei.Quando il cielo fu tutto nero per la notte vicina, ci raggiunse una motozattera tedesca che aveva visto un nostro razzo e ci prese a bordo. Il ponte ci sembrava estremamente solido, e l'accoglienza fu fraterna. Dopo tre giorni per viaggi in mare, autoambulanza e treno, raggiungemmo il nostro Gruppo che continuava a spostarsi di aeroporto in aeroporto. Qui l'accoglienza per noi due, considerati morti più che dispersi, fu calorosissima. Appresi che avevamo affondato un grosso mercantile di ottomila tonnellate, e che l'affondatore dovevo essere stato io perché il maresciallo Galletti che mi precedeva nel tuffo, e che aveva sganciato la bomba sugli zatteroni da sbarco, dichiarò che, dopo lo sgancio dei primi cinque, non aveva visto nessuna nave colpita. Mi venne poi concessa una Medaglia d'argento. Desidero ricordare alcuni nomi di giovani colleghi piloti per onorarne la memoria. Il Sottotenente Poggioli di Modena, abbattuto nella mia azione, e il Sottotenente Calzoni di Bologna, abbattuto fra altri nell'azione del 13 luglio."
Serg. Magg. Naccari
Su "Aeronautica" Settembre 1992